L'ATTENZIONE RICHIESTA A SCUOLA

La vera attenzione è una partecipazione affettiva
Il lattante è spontaneamente « attento » al viso, al sorriso della madre e, in seguito, al muoversi dell’adulto in una stanza. Il bambino guarderà senza stancarsi il padre che sta lavorando a qualcosa o una formica che si tira dietro un 
chicco d’avena, perché si identifica e vive con ciascuno, affettivamente, le difficoltà incontrate. Sa concentrarsi su un disegno, o ascoltare una storia, ma è necessario, ben inteso, che essa abbia per lui un interesse, vale a dire che egli possa viverla, calandosi nei panni di uno dei personaggi.

 

Il bambino riesce anche a polarizzare in maniera straordinaria tutta la sua attività mentale in una determinata direzione, ad essere sordo a qualsiasi altro stimolo, ad essere assente a tutto il resto e se passa per «disattento », succede spesso perché è troppo attento a inseguire il proprio sogno... (ci sono anche gli instabili per immaturità, o mancanza di vita relazionale, ma si tratta allora di tutt’altra cosa).

Ma H. Wallon parla di un’altra ingannevole forma di attenzione: « È dimostrato che pretenderla, significa esigere dal bambino uno sforzo astratto che lo affatica eccessivamente e il più delle volte non fa che inibirlo, arrivando perfino a sviluppare in lui, nei confronti di certi insegnanti, una specie di torpore riflesso, un riflesso di difesa, come esiste nell’animale e nel bambino, quando la situazione ostacola la loro attività abituale o spontanea. È allora un’operazione davvero difficile sopprimere questa inibizione sotto condizione »

Questa pseudo-attenzione non è che un atteggiamento: « Fa’ attenzione » significa infatti:

« Sta’ buono e guardami ». Ma non si può pretendere che il bambino avverta magicamente un interesse immediato ed esclusivo per ciò che vi accingete a fare. Tutto ciò che egli effettivamente può fare, per farvi piacere, è di starsene buono, vale a dire di comandare ai suoi muscoli, ma è una cosa che non tarda a diventare faticosa, e poiché è un essere attivo, gli viene ben presto la voglia di fare dell’altro.

Uno degli scopi che si prefigge la scuola è quello di sviluppare la fissazione su un determinato compito, anche arduo. Questa fissazione è un segno di maturazione. I bambini che non ne sono capaci sono « immaturi » o « ludici », ma è impossibile, sulla sola base dei risultati, distinguere la disattenzione di un « ludico » da quella di un bambino affaticato.

È soltanto il contesto che fa la differenza: se si tratta di un bambino che aveva in partenza buone qualità di fissazione per la sua età, con segni di una buona maturazione, si può affermare che si tratta di affaticamento: si è oltrepassata allora la soglia delle sue possibilità l8 Se è molto « scrupoloso » o ansioso, continuerà ugualmente, ma a costo di uno sforzo sovrumano e di una fatica che non mancherà di ripercuotersi sul sonno, sull’appetito, sul carattere.

 

Curiosità e soddisfazione

Il bambino ha dei « centri d’interesse » ben precisi: gli animali, i congegni di velocità, i paesi favolosi od esotici, le epoche eroiche, gli utensili, le macchine, le armi, una certa forma di attualità (la più spettacolare). È normale che tutto ciò lo spinga a porsi delle domande, a cercare delle soluzioni: « Perché fanno questo? Come è fatto? Come si muove? Chi li ha inventati? È antico?

Questi interessi spontanei sono come degli enigmi, degli stimoli, delle scintille iniziali, che acuiscono la sua curiosità, gli danno uno slancio, sono come l’odore della selvaggina per la volpe, l’indizio per il detective: interessi febbrili, che niente può più trattenere. Bisogna approfittare di questo slancio per farli approfondire, e non soddisfare troppo rapidamente una curiosità . Ma il tempo del bambino è breve, Io slancio si esaurisce molto prima che nell’adulto. È perciò uno dei compiti della scuola prolungare questo tempo, rendere questi interessi duraturi e continui, ma procedendo per gradi. In una scuderia di cavalli da corsa, non bisogna sfiancare un puledro.

Soltanto facendogli vivere le gioie di una scoperta dopo una digressione, gli si insegnerà a sopportare  delle digressioni, anche noiose; non annoiandolo immediatamente.

Interessi? Bisogni? Il più delle volte l’istinto del bambino è sicuro: egli sente ciò che lo avvicinerà all’adulto, ciò che gli servirà. Pur tuttavia non è infallibile e gli ambienti nei quali viene a trovarsi, oltremodo artificiali o già falsati, possono fuorviarlo. J. Beauvais parla giustamente di « bisogni assenti » Vi sono ambienti così sottosviluppati, così poco stimolanti, dalle esigenze talmente limitate, che il bambino non proverebbe bisogno di sorta, in quanto li ignora o non possiede energia vitale per altro, per « uscirne ». Una pedagogia che si limitasse ai bisogni avvertiti, che si accontentasse dei bisogni esistenti senza cercare di destare delle curiosità, degli appetiti nuovi, delle esigenze nuove, sarebbe una ben misera pedagogia.

La « pedagogia dei bisogni » è legittima quando si sforza di rispondere ai bisogni abituali di bambini normali, dinamici, curiosi, non quando si limita, nei casi individuali, ai bisogni elementari, limitati, di bambini troppo dotati. Ma anche in tal caso, suscitare degli appetiti non significa rimpinzare. Se un bambino manca di appetito, gli si fa praticare dello sport, gli si fa prendere aria, lo si stimola con l’esercizio, l’aria di mare, all’occorrenza con delle medicine, ma non ci si serve di un imbuto.

La noia immediata, senza rimedio, è ciò che non ha senso: ciò che si fa perché non si può fare diversamente:

« Che stai facendo in questo momento? ». E l’alunno: « Sto aspettando che arrivi il momento di uscire »